San Benedetto Giuseppe Labre

Un santo per il giubileo del 1775

a cura di Fra Mario Gentili  San Nicola da Tolentino,  settembre, ottobre, novembre 1998

«A Roma, nella Galleria Corsini, c’è il ritratto di G. B. Labre: un povero di aspet­to monacale che nel suo mantello ha rac­colto come fosse un saio la polvere di tutte le strade. Braccia incrociate, un rosario, i cui grani ondeggiano tra le pie­ghe di una stoffa verdastra, si avvolge attorno al collo.

Ed ecco il volto di un pallore devastato con il macerarsi quotidiano e continuo e trasfigurato con l’interno dolore di Cristo. E questo dolore ha raggiunto il suo fine: la gioia infinita. Alla severità della croce risponde il sorriso delle pal­pebre abbassate che ostentano lo sguardo invisibile. Questo cenobita in stracci, che il pittore Antonio Cavallucci incontrò per le vie di Roma, è l’artesiano Benedetto Giuseppe Labre».

Benedetto nasce il 25 marzo 1748 ad Amettes, in Francia, da poveri agricolto­ri. È il maggiore di quindici fratelli, fre­quenta le scuole del villaggio dirette dal vicario della parrocchia. Dagli atti del processo risulta che mostrava una serietà maggiore dell’età. Viene accolto dallo zio sacerdote, l’abate Francois Labre: studia latino e aiuta lo zio nelle funzioni e por­tando il viatico agli ammalati.

La principessa Cray che abita il castel­lo lo chiama “il mio curatino”. Il vescovo diocesano Mons. de Partz de Pressy cre­sima Benedetto che da poco ha fatto la Prima Comunione. Sarebbe un curato esemplare, ma un libro trasforma il gio­vane, destinato al sacerdozio, in un peni­tente integrale. Adesso egli sogna il chio­stro e il vivere nei monasteri più rigidi. Inginocchiato davanti al Crocifisso com­prende che la sua intera vita deve essere espiazione.

Benedetto si da ad opere di carità, spe­cialmente durante la peste. Suo desiderio è di entrare nella Trappa per vivere una vita nascosta in cui annientarsi. Quando muore lo zio sacerdote vende tutto per darlo ai poveri riservandosi solo qualche volume della biblioteca.

Come maestro ha un sacerdote santo: l’abate Jacques Vincent. Benedetto nutre il desiderio del chiostro: «Avrei voluto esse­re povero mendicante perduto nel mondo». Prova a bussare in diverse abba­zie e certose ma viene sempre respinto.

Passa la gioventù a leggere i grandi misti­ci; dalle altezze dei suoi pensieri viene tra­sportato giù da grossolani scherzi dei con­discepoli: questo contrasto lo perseguiterà fino alla tomba. Una volta viene accolto in certosa ma dopo qualche settimana ne esce perché ha capito che non è la sua vita. La mamma lo rimprovera per le sua austerità ma lui risponde: «Non vi inquie­tate, mamma; Dio mi chiama a una vita che è la più austera. Non è forse necessario che io mi abitui prima di iniziarla? Io mi preparo a seguire le vie di Dio».

Riesce finalmente a entrare nella Trappa e fa la sua vestizione con il nome di Fra Urbano: ha 22 anni.

All’inizio prova gioia ma poi ecco la notte, preso da dubbi e malinconia. Implora: «Che si allontani da me questo calice!». Ma le tenebre si infittiscono. Nel colmo della tentazione Benedetto adora colui che la permette e lui stesso ha voluto subire. Cade gravemente malato. Estromesso dalla Trappa si crede più che mai abbandonato da Dio e le tenebre lo avvolgono. Questa notte dell’anima è annunzio d’un chiarore così intenso che acceca prima di illuminare.

Benedetto pensa: «Bisogna andare a servire». Nel suo smarrimento prende questa risoluzione senza sapere ciò che Dio vuole da lui. Mentre prosegue sulla sua strada, la notte spirituale si dirada. In una grande chiarità del cuore egli cono­sce la sua vocazione di pellegrino. Vede nei santi delle creature immolate per amore di Dio: non si stancherà mai di venerare le loro reliquie e con lo stesso cuore docile, con il quale ha abbracciato la vita monastica, ora abbraccia quella di pellegrino.

Benedetto scrive una lettera ai suoi informandoli che parte alla volta di Roma per trovare un monastero di rigorosa osservanza; chiede anche perdono e la benedizione. È confortato dall’approvazione di un sacerdote, direttore di un seminario, che ha incontrato sulla strada.

Si incammina per visitare i grandi santuari. Al villaggio di Dardilly, presso Lione, accetta l’ospitalità di Pierre Vianney, un coltivatore con numerosi figli: Mathieu, il padre del futuro santo Curato d’Ars.

“Il mio corpaccio e la mia carcassa”, così Benedetto parla agli italiani del suo corpo macerato. Eppure la sua vita è un costante sforzo fisico. Il contadino trop­po delicato per lavorare la terra, il novi­zio che soccombe sotto i rigori del chiostro, visita a piedi i principa­li santuari d’Europa nello spazio di 7 anni (1770-1777). È il per­sonaggio di cui parlano tutte le cronache del tempo. Appog­giato al bastone, il salvadanaio appeso al lato, un tricorno per copricapo, le scarpe rotte, riposa in paesaggi irreali, dove passano pescatori e cacciatori. Chi può contare i luoghi santi da lui visitati?

Ma il viaggio più importante è il cam­mino dal timore all’amore. «Che farete – gli chiederà per provarlo uno dei suoi confessori – se un angelo vi annunziasse la vostra condanna?»«Avrei fidu­cia», risponderà con calma Benedetto.

SI FA PELLEGRINO

Nel precedente numero abbiamo visto il Santo in continua ricerca della propria vocazione, pienamente disposto a viverla con fede totale. Ora l’ha compresa.

Legge libri spirituali: non è uno sciocco ignorante, ma un asceta dell’antica e dura scuola. Affondato nel suo nulla, Benedetto risale verso Dio e si unisce a Cristo. Il cuore di chi ama perfettamente pensa sempre all’amore. Tutte le monta­gne su cui si inerpica diventano Golgota. L’amore di questo pellegrino ignora i limiti: contiene tutta la Chiesa. Ma che vuole da lui quella gente ragionevole, caritatevole e certo ben intenzionata che gli parla di camicia meno sporca, di scar­pe meno sfondate, di cappello meno ridi­colo? Benedetto per cortesia ringrazia.

«Io non sono niente nel mondo – dice – non sono che un fardello inutile sulla terra; devo pensare a rientrare in me stes­so e a regolare i miei affari e a morire da cristiano. Che Dio si degni presto di accordarmi questa grazia!».

Al villaggio di Amettes Benedetto saluta i bambini per rispetto della loro innocenza. Sulle strade d’Europa il pellegrino si inchi­na profondamente davanti a viaggiatori miserabili come lui, suoi fratelli riscattati nel Cristo. A Fabriano una povera donna lo ripara a casa sua e gli racconta le sue sof­ferenze, poi lo accompagna da una vicina che da nove anni soffre di un male ingua­ribile. Vincenza Fiordi soffre. «Diceva delle cose belle – testimoniò Virginia Fiordi – che io restavo a bocca aperta ad ascoltarlo e non mi ricordavo di avere mai sentito nulla di simile…». Le sorelle Fiordi testimoniarono che portava una “barbetta biondina”. A Fabriano è andato a venerare la tomba di S. Romualdo.

Qualche volta gli capita di trovarsi in mezzo ai gruppi. Lui si inginocchia, prega, canta litanie e le elemosine che raccoglie le distribuisce ai carcerati o a altri poveri. Spesso capita che ragazzacci lo insultano e tirandogli i sassi lo feriscono. Fun insul-tato anche da tre ragazze e a una di loro predice che diverrà monaca. Come infatti avvenne. Lui perdona e prega per loro.

Nel 1772, diretto a Loreto, si trova a Cossignano (AP). Un giovane sacerdote, Michelangelo Santucci, vede nel suo presbiterio questo povero che prega. Il sacer­dote distingue le parole: «De profundis clamavi ad te Domine». Ogni sera lui recita questo salmo, ma gli pare di udirlo per la prima volta. Don Michelangelo con rispetto si avvicina al povero e gli chiede il suo nome e la sua patria: «Benoit… francese». Il sacerdote lo vuole a casa sua. anche per imparare il francese, e lo vuole come inserviente. A malincuore entra nella casa, a voce bassa e molto umiliato gli confessa che teme di propagare nella sua dimora i disgustosi insetti che egli si trascina (è la prima allusione alla strana penitenza del santo che trovia­mo nei processi di canonizzazione).

Il Santucci ascolta con devozione i ser­moni che il povero legge in francese. Lo vuole con sé e teme di vederlo allontana­re come se qualche grazia celeste dovesse scomparire con lui. Lo straniero affretta la partenza perché nell’ospizio le bestemmie e le parolacce lo feriscono al cuore. Una mattina dopo la Santa Messa continua il suo viaggio. Il sacerdote accompagna il pellegrino per lungo tratto. Quando poi deve lasciarlo, Benedetto bacia la mano del sacerdote. E questi torna più triste che se avesse dato l’addio ad un suo fratello: «Io provai – testimoniò – uno stringimen­to, un laceramento di cuore tale da farmi sentire come se l’anima mia si staccasse dal corpo; scoppiai in lacrime e tornai a casa dove mi chiusi nella stanza per poter piangere liberamente».

Il sacerdote di Cossignano conserva come un pegno prezioso la carta dove il vagabondo ha scritto: «Giuseppe Benedetto Labre d’Amettes in Artois».

A Moulins la sofferenza gli è inflitta da un prete. Nel suo pellegrinaggio verso Compostella questa è una lunga tappa. Nella collegiata di St. Pierre Benedetto prega tutto il giorno. Il suo nemico lo squadra: «Mio Dio. vi ringrazio di non essere simile a questo mendicante». Il sacerdote si stanca di vedere il povero ogni giorno immobile e sempre allo stesso posto e lo prende per un fannullone. È stato commesso un furto sacrilego e il sacerdote da la colpa a questo mendicante.

È il Giovedì Santo e Benedetto che non possiede nulla sente un potente impulso di carità: attraversa le strade e le piazze e in un momento raduna 12 mendicanti, li conduce nel suo alloggio di fortuna e si appresta a distribuire loro 2 soldi di pisel­li e qualche crosta di pane. I pezzenti ten­dono le loro scodelle e Benedetto leva molto in alto la sua come se questi miseri alimenti debbano essere consacrati. I poveri vedono trasfigurarsi il loro compa­gno, la magra pietanza si moltiplica sotto i loro occhi. Le scodelle si riempiono fino all’orlo: «miracolo» qualcuno mormora, ma Benedetto sorride e parla di un Benefattore così caritatevole che da Lui egli ottiene tutto, cioè da Dio stesso.

Benedetto prega e guarisce un malato ma deve fuggire perché sospettato del furto e deve fuggire come un emigrante colpevole. Mentre è in cammino verso Compostella, al limite di un bosco sente un lamento umano e scopre un uomo che dei malfattori tentano di assassinare.

Benedetto lava le piaghe e cerca nel fondo della sua bisaccia un po’ di tela per fasciarlo. Due cavalieri passano e lo scambiano per  l’aggressore. Il pellegrino entra in città incatenato come un crimina­ le, trascinato dietro i cavalli e i soldati lo mettono in prigione. L’avventura non è l’unica della sua vita. La sua innocenza è proclamata dall’uomo ferito che si fa pellegrino con   Benedetto al Santuario di Montserrat.

ASSIDUO PELLEGRINO AL SANTUARIO DI SAN NICOLA

Durante il Giubileo di Pio VI S. Benedetto Giuseppe Labre si dirige verso l’Ospizio di S. Luigi dei Francesi che ospi­ta i suoi connazionali. Nel 1777 decide di fermarsi a Roma. Più povero di San Francesco, non ha una casa, dorme sotto gli archi del Colosseo, visita i luoghi sacri della città, soprattutto le chiese dove è esposto il Santissimo durante le Quarant’Ore. Lo vedono pregare con il volto radioso ed andare in estasi. Non fa altri viaggi se non quello da Roma a Loreto ogni anno a primavera, fermandosi a Tolentino per venerare San Nicola. Compie per undici volte il pellegrinaggio a Loreto e dorme davanti alla porta della chiesa. Barbara Sori, di Loreto, invita il pelle­grino a casa e gli offre la bian­cheria pulita ma egli preferi­sce i propri stracci.

Ancora oggi esiste questa stanza sot­terranea dove ha alloggiato il santo dor­mendo sopra una pietra. Nel 1782 per l’ul­tima volta Benedetto se ne va da Roma a Loreto. Il suo benefattore macellaio Zaccarelli gli offre un cappello di scarto e Benedetto allegramente se lo mette e dice: «veramente ho l’aria di un milord. Sì, paro un milordo». L’ultima volta che viene a Tolentino andando a Loreto, con grande fervore si prostra a venerare le Sante Braccia sanguinanti di S. Nicola. La botte­gaia lo riconosce e si ricorda di essere stata guarita per le preghiere di Benedetto. Questa volta egli le offre un crocifisso: «Un’altra volta, un’altra volta», mormora lei per sbarazzarsi del pellegrino, ma lui riprende: «chi sa se ripasserò qui?». Lui, che non dice mai il suo nome ad alcuno, a Tolentino lo dice e con insistenza. «Se mi succedesse di morire – dice alla donna -, sappiate che io mi chiamo Labre, Labre»; lo ripete con un suono lamentoso. A Loreto prega intensamente nella S. Casa e saluta la famiglia Sori dicendo che deve tornare a casa, indicando il ciclo.

L’ultimo periodo della sua vita lo passa all’ospizio la volgarità dei suoi compagni e non sa che li sta aiutando tutti. Il Mercoledì Santo del 1783, nella Santa Messa a S. Maria dei Monti, durante il racconto della passione di Cristo, si sente male: deve uscire dalla chiesa e si siede sui gradini del sagrato. Il macellaio Zaccarelli, che tante volte lo ha invitato, gli chiede se vuole andare a casa sua: «Da voi sì, volentieri», mormora Be­nedetto. Accompagnato a casa, in via dei Serpenti, vicinissima alla chiesa, vuole morire per terra: «la terra, – dice – solo la terra». I suoi benefattori non comprendono e lo depongono in un giaciglio: «Be­nedetto, voi avete sonno e volete dormire», dice il macellaio. «Sì, ho sonno, voglio dormire»: è l’ultima parola distinta di Be­nedetto. Gli amministrano l’estrema unzio­ne. Al suono di tutte le campane di Roma, disposto da Pio VI, si chiude la sua esisten­za. Il suono delle campane è un invito a recitare la “Salve Regina” secondo le inten­zioni della Chiesa. L’alba del Giovedì Santo si leva a Roma. A Loreto Peppino Sorì, di 5 anni, fa sapere ai genitori: «Bene­detto è morto ed è andato in Paradiso. È il cuore che me lo dice». A Roma i bambini gridano per le vie: «È morto il Santo», « il Pellegrino della Madonna », «il povero del­le Quarant’Ore », « il penitente del Colos­seo ».

La gente grida: « Beato lui! Beato ». Zaccarelli vuota la bisaccia del povero e inventaria il suo contenuto: un breviario molto rovinato. l’Imitazione di Cristo, qualche libretto di devozione, alcune medagline e immaginette. Alcune suore non vogliono recitare il De profundis ma il Glo­ria Patrì. Verso sera la salma viene traspor­tata alla Chiesa della Madonna dei Monti. Tutta Roma vi si riversa per onorare que­sto nuovo santo. I soldati non riescono a mettere ordine. Tutti, anche cardinali e ambasciatori, vogliono qualche reliquia, pezzettini di stoffa, capelli, ecc. La sera di Pasqua viene inumato sotto l’antica imma­gine della Vergine da lui venerata. Così ini­zia il pellegrinaggio alla tomba di questo povero pellegrino. Si vendono anche i suoi ritratti. Non sono mancati i miracoli. Il 3 maggio un medico di Roma annuncia alla sorella carmelitana 63 miracoli incontesta­bili. A luglio il numero dei miracoli regi­strati raggiunge 136. Nel giugno del 1783 il curato di Amettes e il suo vicario proce­dono ai primi interrogatori per la beatifica­zione. L’anno seguente il vescovo di Boulogne convoca presso di sé i genitori di Benedetto affinché portino la propria testi­monianza riguardo al figlio. Viene beatifi­cato il 20 maggio 1860 e canonizzato l’8 dicembre 1883.